#ioleggobio : Hannah Arendt
Qualche settimana fa mi è capitato di vedere su Netflix il film “Operation Finale”, pellicola che narra l’operazione complessa e pericolosa che portò alla cattura di Otto Adolf Eichmann, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista e fuggito in Argentina alla fine delle Seconda Guerra Mondiale grazie ad un vicario italiano e alla Croce Rossa.
La sua cattura, l’operazione del Mossad in Argentina sono raccontati perfettamente dal film di Chris Weiz ma anche dal saggio di Andrew Nagorski, Sulle tracce dei criminali nazisti, edito da Newton Compton.
Il processo Eichmann, tenuto nel 1961, a quindici anni da quello di Norimberga, fu il primo processo a un criminale nazista tenutosi in Israele. L’arrivo di Eichmann in Israele fu accolto da una fortissima ondata di esultanza mista a odio verso quello che si era impresso nell’immaginario dei sopravvissuti ai lager come uno dei maggiori responsabili della sorte degli Ebrei. Tuttavia Eichmann offrì di se stesso un’immagine poco appariscente, quasi sommessa, ben diversa da quella di inflessibile esecutore degli ordini del Führer; negò di odiare gli ebrei e riconobbe soltanto la responsabilità di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra. Hannah Arendt lo descrisse, con una frase poi passata alla storia, come l’incarnazione dell’assoluta banalità del male.
Ed è qui che fermo la mia introduzione, desiderosa di raccontarvi la storia di una grande donna, filosofa e narratrice, poiché testimone, del processo al criminale nazista , che la Arendt seguì come inviata del New Yorker a Gerusalemme nel 1961, e dal quale trasse nel 1963 il suo libro più controverso: La banalità del male.
Hannah Arendt nasce il 14 ottobre 1906 a Linden, un sobborgo di Hannover, da Martha e Paul Arendt. La sua famiglia è borghese e benestante, sebbene non abbia legami particolari con il movimento sionista. Pur non avendo ricevuto un’educazione religiosa tradizionale, la Arendt professò sempre la propria fede in Dio.
Nel 1929 si laureò in filosofia ad Heidelberg sotto la guida di Karl Jaspers con una dissertazione su “Il concetto di amore in Agostino”. (solo di recente si è scoperto che i due furono amanti.)
Nel 1929, trasferitasi a Berlino, grazie una borsa di studio sposa Günther Stern, un filosofo conosciuto anni prima a Marburg. Dopo l’avvento al potere del nazionalsocialismo e l’inizio delle persecuzioni nei confronti delle comunità ebraiche, La Arendt abbandona la Germania nel 1933 attraversando il cosiddetto “confine verde” delle foreste della Erz. Passando per Praga, Genova e Ginevra giunge a Parigi, dove conosce e frequenta, autori e scrittori di grande importanza.Qui, collabora presso istituzioni finalizzate alla preparazione di giovani ad una vita come operai o agricoltori in Palestina (l’Agricolture et Artisan e la Yugend-Aliyah) e diventa segretaria personale della baronessa Germaine de Rothschild. Nel 1940 si sposa per la seconda volta, con Heinrich Blücher. Ma gli sviluppi storici del secondo conflitto mondiale portano Hannah Arendt a doversi allontanare anche dal suolo francese.
Internata nel campo di Gurs dal governo Vichy in quanto “straniera sospetta” e poi rilasciata, dopo varie peripezie riesce a salpare dal porto di Lisbona alla volta di New York, che raggiunge insieme al coniuge nel maggio 1941. Dal 1957 ottiene insegnamenti presso le Università di Berkeley, Columbia, Princeton e, dal 1967 fino alla morte, anche alla New School for Social Research di New York.
Non bisogna dimenticare l’impegno costante nella sua lotta ai regimi totalitari e alla loro condanna, concretizzatisi da una parte con il libro-inchiesta su Adolf Eichmann e il nazismo: “La banalità del male” e, nel 1951, con il fondamentale “Le origini del totalitarismo”, frutto di una accurata indagine storica e filosofica. Nel saggio, emergono giudizi negativi sia sulla Rivoluzione francese che su quella russa.
Tra il 1960 e il 1963 seguì il processo di Adolf Eichmann, dal quale prese spunto per scrivere La banalità del male.
Un testo che affermava una semplice ma indigesta verità: che Eichmann e gli altri criminali di guerra nazisti non erano mostri, demoni, esseri in qualche modo straordinari, ma soltanto piccoli uomini banali, grigi burocrati, ottusi ingranaggi di una macchina enorme e perfettamente efficiente. Uomini qualunque, uomini come noi. Per queste sue parole Hannah Arendt subì critiche feroci, attacchi pesantissimi, un vero e proprio ostracismo che amareggiò gli ultimi anni della sua vita.
Nel 1972 viene invitata a tenere le Gifford Lectures all’Università scozzese di Aberdeen, che già in passato aveva ospitato pensatori di prestigio come Bergson, Gilson e Marcel.
Due anni più tardi, durante il secondo ciclo delle “Gifford”, subisce il primo infarto. Altre opere significative di questo periodo sono “Vita activa. La condizione umana” e il volume teoretico “La vita della mente”, uscito postumo nel 1978, attraverso il quale la Arendt, riporta al centro dell’esistenza umana la “meraviglia” (il thaumàzein).
Il 4 dicembre 1975 la grande pensatrice Hannah Arendt si spegne a causa di un secondo arresto cardiaco, nel suo appartamento di Riverside Drive a New York.