La famiglia Aubrey
– Rebecca West –
“In quei momenti un estraneo l’avrebbe considerato un eccentrico trasandato che aveva fallito nella vita e stava per rimanere senza denaro, e avrebbe avuto pietà per la mamma, e anche per i suoi bambini, perché dovevamo vivere con lui. Ma era in quei momenti che era più simile alla mamma nella sua vigorosa determinazione; perché ogni volta significava che stava scrivendo qualcosa di meno effimero dei suoi soliti articoli, un pamplhet o un saggio da includere in un libro.”
Formato: Copertina flessibile
Giudizio Sintetico
Se Rebecca West ha voluto racchiudere in questo romanzo spicchi di luce e ombre della propria infanzia, si potrebbe pensare che autrice e protagonista si uniscano per raccontare una Londra in epoca edoardiana, decennio di grandi cambiamenti che portò non solo alla Prima Guerra Mondiale, ma ad un turbine di movimenti politici e sociali che si respirano e si iniziano a comprendere tra le righe di questo romanzo.
Rebecca West sembra voler iniziare con una fotografia volutamente amara dell’infanzia in questo decennio, nascondendo la realtà dei fatti che portarono la stessa autrice, il suo compagno e l’amica Virginia Wolf e molti altri ad abbracciare la corrente del Fabrianesimo, con lo scopo e il sogno di veder elevate le classi lavoratrici ad una figura di controllo e gestione della produzione.
In un’epoca così di grandi cambiamenti troviamo una famiglia, dove l’arte è la vera ricchezza e la rinuncia una costante onnipresente.
Gli Aubrey sono una famiglia fuori dal comune, nella Londra di fine Ottocento. Nelle stanze della loro casa coloniale, fra un dialogo impegnato e una discussione accanita su un pentagramma, in sottofondo riecheggiano continuamente le note di un pianoforte; prima dell’ora del tè accanto al fuoco si fanno le scale e gli arpeggi, e a tavola non si legge, a meno che non sia un pezzo di papà appena pubblicato. Le preoccupazioni finanziarie sono all’ordine del giorno e a scuola i bambini sono sempre i più trasandati; d’altronde, anche la madre Clare, talentuosa pianista, non è mai ordinata e ben vestita come le altre mamme, e il padre Piers, quando non sta scrivendo in maniera febbrile nel suo studio, è impegnato a giocarsi il mobilio all’insaputa di tutti. Eppure, in quelle stanze aleggia un grande spirito, una strana allegria, l’umorismo costante di una famiglia unita, di persone capaci di trasformare il lavaggio dei capelli in un rito festoso e di trascorrere «un Natale particolarmente splendido, anche se noi eravamo particolarmente poveri». È una casa quasi tutta di donne, quella degli Aubrey: la figlia maggiore, Cordelia, tragicamente priva di talento quanto colma di velleità, le due gemelle Mary e Rose, due piccoli prodigi del piano, dotate di uno sguardo sagace più maturo della loro età, e il più giovane, Richard Quin, unico maschio coccolatissimo, che ancora non si sa «quale strumento sarà». E poi c’è l’amatissima cugina Rosamund, che in casa Aubrey trova rifugio. Tra musica, politica, sogni realizzati e sogni infranti, in questo primo volume della trilogia degli Aubrey, nell’arco di un decennio ognuno dei figli inizierà a intraprendere la propria strada, e così faranno, a modo loro, anche i genitori. Personaggi indimenticabili, un senso dell’umorismo pungente e un impareggiabile talento per la narrazione rendono La famiglia Aubrey un grande capolavoro da riscoprire.
I genitori sono cresciuti di avventura spensierata, i figli costretti a nutrirsi di sogni e immaginazione.
Il padre Piers vive di scrittura e, sebbene ciò che fa sembra essere molto apprezzato, vive di vizi che portano spesso al limite la condizione economica familiare; condizione che viene gestita con grande orgoglio dalla magra e spigolosa moglie Claire che trasmette l’amore per la musica ai figli sperando in una carriera a cui lei ha dovuto rinunciare.
I veri protagonisti sono loro, i bambini, prima di tutti Rose, narratrice e sveglia ragazzina che condivide tempo e passione con la sorella Mary, che non condivide il successo della sorella maggiore Cordelia e che si stupisce di fronte alla bellezza e all’immunità dall’amore musicale del fratellino Richard Quin.
La vita della famiglia Aubrey è riempita dal movimento creato dai personaggi che entrano ed escono dalla quotidianità della casa di Lovegrove: la cugina Rosamund e il Poltergeist, l’omicidio Phillips e la cara Kate.
I personaggi si trovano a dover affrontare temi diversi che toccano e dipendono dal personaggio meno presente nell’intero romanzo (e anche maggiormente disinteressato alla famiglia), il papà Piers, fulcro di questioni economiche e politiche che sono anche punto di non ritorno per un futuro nuovo e diverso che scopriremo solo nel prossimo volume della Trilogia della famiglia Aubrey.
Se iniziate questa lettura perché nostalgici di una saga familiare come quella dei Cazalet, fermatevi un secondo: chiedetevi piuttosto se avete voglia di confrontarvi con una saga familiare classica e meno movimentata, più sentimentale e meno speziata.
L’illusione che sia qualcosa di simile a ciò a cui ci ha abituati la Howard potrebbe essere l’errore più grande; più classicità, più narrativa pura e meno movimento sono le caratteristiche principali di questo romanzo.
Innanzi tutto il periodo in cui è ambientato, l’epoca edoardiana dei primi del ‘900, rende il tutto più ombroso, più formale e legato ancora a tradizioni arcaiche, dove si parla per metafore e dove l’ironia non è evidente in prima lettura.
La scrittura è indubbiamente perfetta, magistrale, a tratti volutamente lenta ma armoniosa e poeticamente descrittiva, uno stile di alto livello apprezzabile da chi ama la veste classica e meno fruibile, meno moderna e commerciale.
La trama è lenta e semi immobile, sono presenti pochi attimi vivaci come il Poltergeist e l’omicidio Phillips ma il resto è un insieme di attimi di grande sentimentalismo e introspezione, di infanzia, sogni e desiderio di riscatto.
La musica che così tanto è presente nella trama e nello stile, sembra volutamente armoniosa e intona quasi un ritmo scandito come con il metronomo: ordinato ma a tratti troppo poco movimentato, rischiando di perdersi nella lettura e lasciarsi sfuggire passaggi troppo prolissamente allungati.
Una lettura che va scelta con grande consapevolezza, che va apprezzata nello stile e nella narrazione, che va metabolizzata una volta chiusa l’ultima pagina.
Spero che nel secondo volume, che leggerò perché la qualità e indubbia e i personaggi interessanti, possano essere ricchi degli scenari sociali, politici e personali dei protagonisti e della storia che ha caratterizzato quegli anni.
REBECCA WEST
(County Kerry, Irlanda, 1892 – Londra 1983) scrittrice e saggista anglo-irlandese. Dopo una serie di romanzi di relativo successo, si impose con Il traboccare della fontana (The fountain overflows, 1956) e Gli uccelli cadono (The birds fall down, 1966), dove, con finezza psicologica e pungente ironia, si affrontano tematiche attuali, come l’incomunicabilità e il ruolo femminile nel mondo moderno. Nel 1982 ha pubblicato 1900, rievocazione del mondo della sua infanzia. Ma è ancora più notevole la sua opera critica, che prende in esame situazioni e problemi politici, sociali, storici. In particolare si ricordano: Il significato del tradimento (The meaning of treason, 1949; ediz. definitiva 1965), scritto per il processo di W. Joyce, accusato di alto tradimento, e gli scritti sul processo di Norimberga (A train of powder, 1955); tra i saggi letterari, D.H. Lawrence: un’elegia (D.H. Lawrence: an elegy, 1930).